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   Maria 
 
                                                                                                                                                                      Viserbella (Emilia-Romagna), 21 settembre 1561  
 
La guardo posare la penna d’oca sullo scrittoio consunto, unico arredo della stanza, fatta eccezione per il gibboso materasso posto nell’angolo alla mia sinistra. Si respira un’aria stantia qui dentro, l’umidità la fa da padrone ma lei, avvolta nel suo abito scuro, sembra non percepirla. 
  Mi piace il taglio della sopravveste, attillata sul busto e svasata in vita, la scollatura quadrata è decorata dalla ricca passamaneria e il ciondolo a forma di stella sosta sulla stoffa. È così bella con i lunghi boccoli del colore del grano che le ricadono sulla schiena, la pelle diafana e il sorriso che ancora non l’abbandona. Neppure questa sera, neppure quando mancano poche ore alla fine. 
  La minuscola finestra, di fronte a me, rivela il cielo stellato intrappolato tra le grate e, là fuori, la pira funeraria già ultimata, una catasta di legna pronta per essere data alle fiamme assieme alla condannata. Chiudo gli occhi, ignorando la consapevolezza di ciò che la aspetta. Lei: l’eretica, la strega!  
  La guardo e invidio il suo autocontrollo, la sua lucidità. Eccola lì, intenta a infilare il suo scritto tra le pagine di quel mastodontico diario che porta sempre con sé. Non so cosa contenga, ma per lei è stato un fedele compagno e lo sarà anche per me. 
  Mi si avvicina, consegnandomelo. La copertina scura è morbida, priva d’iscrizione, conterrà almeno cento pagine se non il doppio. Ci guardiamo, occhi negli occhi, non una parola esce dalla sua bocca né dalla mia; poi l’uscio alle mie spalle si apre e la guardia sbircia all’interno: le sue gambe sono infilate in stivali sudici, la tunica puzza di vino e la spada riposa nel fodero. Ci ricorda, senza troppi preamboli, che l’ora è tarda e la visita deve concludersi.   
  Guardo il soldato dileguarsi oltre il battente, mentre ricaccio l’immagine di ciò che la aspetta, le fiamme che presto lambiranno il suo corpo mi provocano una vertigine, mi sento mancare e lei mi sorregge. Mi posa una mano sul capo e il contatto mi riporta alla mente le ninnenanne che soleva cantarmi prima di dormire, la sua voce d’usignolo, il calore del suo tocco, il tocco di mamma. 
  Scuote il capo come a ricacciarmi le lacrime in gola e mi sfiora la fronte con un bacio. Non resisto un istante di più, la stringo a me, disperata, inspirando il suo profumo, immortalandolo nella memoria. 
  «Vi voglio bene» le sussurro all’orecchio. 
  Lei annuisce, sciogliendo l’abbraccio. China il collo verso lo sterno e si sfila la collana cui è appeso il ciondolo incolore, mi aiuta a indossarla e resta a osservare la stella a sette punte immobile tra i miei seni. «Custodiscila» mormora «è la tua eredità.» 
  Non rispondo. Detesto questo pendente, indossarlo mi fa accapponare la pelle, così come aborro questo maledetto diario e tutte le menzogne che l’hanno condotta in questa cella: le accuse infondate, l’ignoranza della mia gente e l’orrore di cui si sta macchiando. 
  Mi avvicino all’uscio, reticente, con le lacrime che mi pizzicano gli occhi. La mia mano è già sul pomello liso dalle impronte di prigioniere innocenti che si sono avvicendate in questa stessa cella per anni, forse secoli, prima di lei. Poi la sua voce colora l’aria: «Per quanto sbiadito agli occhi, c’è sempre un disegno, Maria.» 
  Mi chiudo la porta alle spalle. Non voglio ascoltarla, né piangere, non voglio che muoia con i miei singhiozzi nelle orecchie. Vorrei essere forte e combattiva come lei mi ha insegnato, ma non so se troverò la forza. Non domani, non quando dovrò starle di fronte a guardarla bruciare tra il giubilo della folla. 
  Raggiungo l’uscita dell’edificio, ignoro le guardie e non mi volto più indietro. Corro e mi lascio la prigione alle spalle, il ciondolo stretto nel pugno mi graffia il palmo e il diario, schiacciato contro il mio petto, segue il ritmo oscillante del mio incedere. 
  Finalmente piango. Li odio. Odio il mio Paese, odio il mio nome, odio questa eredità.

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